I sotterranei della memoria

La visita a quel campo di concentramento risale a 16 anni fa. Non sono pochi.
Non c’era molta gente e il cielo era completamente coperto, plumbeo. Un arcano silenzio avvolgeva voi visitatori, in gita turistica in Austria.
Il giorno dopo, a Vienna, nel parco giochi, urla di bambini e schiamazzi indicibili in quella lingua dura, aspra nell’orecchio.
L’altra mattina ero a Caivano, presso l’Istituto Comprensivo Don Milani. Prima di incominciare l’assemblea scambiavo quattro chiacchiere con la Preside, Francesca Falco, che peraltro conoscevo in quanto già sindaco di Caivano e da buon sindacalista le chiedevo come andavano le cose di quella scuola.
Il 7 marzo, mi annunciava, ci sarà una grande manifestazione. “Il giorno della memoria”. Gli alunni di questa scuola, dopo un lungo periodo di studio e di approfondimento storico, si preparono a commemorare, con drammatizzazioni mostre e lavori di vario genere, l’olocausto. Sarà presente addirittura un esponente della sinagoga napoletana, una sopravvissuta alla shoah e, probabilmente, una visita guidata alla risiera di San Saba.
Una scuola, questa, non nuova a queste iniziative. Già qualche anno fa, si ricostruirono ambienti e situazioni della cultura caivanese delle origini e l’anno scorso, in occasione della manifestazione legata al progetto “Educare alla Legalità”, intervenne Padre Rastrelli e i dirigenti dell’Istituto Italiano degli Studi Filosofici.
“Perché non si perda la memoria storica” mi ripeteva con un sottile stato d’ansia se non di preoccupazione quella mattina, la vulcanica preside del Don Milani.
Quel giorno non pensai ad altro: al volto preoccupato della preside, alle efferatezze naziste, alla realtà dei 5000 campi di concentramento nazisti, ai quattro milioni di morti solo ad Auchwitz (un numero di uomini donne e bambini che avrebbe potuto riempire un’intera grande città), a che questo campo di concentramento era stato scientificamente progettato con l’idea di compiere un massacro. Dovevano infatti essere ancora costruite vaste zone di baracche ed erano anche stati predisposti degli appositi spazi per ulteriori camere a gas, camere mortuarie e inceneritori. Il normale tasso oscillava tra le 10.000 e le 12.000 vittime al giorno, con cinque forni crematori che erano in grado di eliminare 279.000 persone al giorno, che i tedeschi guardavano morire con perverso piacere. A tale scopo infatti, avevano costruito appositi finestrini sulle porte delle camere a gas da cui “gustavano” il macabro spettacolo9 dell’effetto del gas venefico sulle vittime che venivano assassinate.
Eppure in questi ultimi anni in Europa – e in quest’ultimo periodo in Italia – è cresciuto e si è consolidato un movimento che vuole negare l’innegabile. Uno dei massimi esponenti di questo filone di pensiero è Leon Degrelle (ex comandante SS Wallonie) ricercato per crimini nazisti dalla polizia belga. Le sue sconcertanti affermazioni circa la inesistenza dell’olocausto mi fanno rabbrividire: “Il campo di concentramento, di per sé, dice Degrelle – considerate le circostanze e la gente che era destinata ad andarci, è abbastanza umano, io sono uno specialista, dal momento che in un campo di concentramento si vede il cielo, la domenica si sta con gli amici. I campi tedeschi – continua l’ex comandante SS – erano proprio così. Non è vero tutto quello che hanno raccontato sui tedeschi: si è creata, intorno al loro operato, una leggenda orribile. Non è stato poi così terribile come ci hanno raccontato. I prigionieri assumevano, nella dieta quotidiana, circa 2000 calorie al giorno (…).
Le camere a gas? Mai sentite nominare. Non ho mai sentito un’allusione a questo strumento di morte da parte dei gerarchi nazisti. Voci!
Forse servivano per disinfettare i prigionieri”.
Queste affermazioni sembrano l’incarnazione dell’incubo che Primo Levi ha descritto tante volte; l’incubo di tornare da un campo di concentramento, di raccontare e di trovare un atteggiamento di incredulità o peggio di indifferenza da parte di chi ascolta.
Degrelle però, non è un fatto isolato. Il “revisionismo”, incarnato prima da alcuni storici inglesi all’inizio degli anni ‘70, nel ‘78 ha avuto un’esplosione in Francia, capeggiato da uno storico dell’università di Lione di nome Faurissonne. Il suo caso fece particolarmente scalpore perché il libretto in cui negava le stragi naziste, presentava l’introduzione scritta da un famosissimo linguista americano, ebreo di sinistra.
Per non parlare poi di Ernst Nolte e di altri “maestri del nulla”che tanto stanno blaterando, sbandierando la menzogna al quattro venti… ma mi fermo qui, per non rischiare di cadere in una noiosa tautologia e rischiare che il lettore abbandoni la lettura dell’articolo.
L’atteggiamento di negazione, o peggio, di oblio, tuttavia, è il denominatore comune della società post- contemporanea.
L’appiattimento cognitivo della cultura del “grande fratello”, che cerca il ‘dissvartismain’ a tutti i costi, non è altro che la rappresentazione culturale, voluta, indotta, del revisionismo storico, è l’attacco frontale della cultura egemone alle ‘radici’, è l’ipotesi del non- pensiero, dell’uomo strumento spersonalizzato del sistema, pedina della ‘matrix’ economica che ci circonda.
Tempo fa Noberto Bobbio scriveva: “il pensiero che ci sia anche un solo essere umano che non ne abbia avuto abbastanza, i cui mucchi di cadaveri non siano sembrati abbastanza alti, ci riempie di orrore e di dolore. Se basta un solo atto sublime di carità per esaltarci, dobbiamo avere il coraggio di dire che basta un solo atto di abiezione per metterci in un stato di allarme. Si è arrivati sino al punto di dire alle vittime, alle poche vittime superstiti: “Avete mentito, avete inventato tutto, avete trasformato la grande stage in una grande menzogna”. Ci dobbiamo dunque rassegnare all’idea che il male sia inestirpabile e la storia non abbia trovato, non possa trovare la propria redenzione?
Forse il male compiuto non è stato espiato.
Forse era troppo grande per essere espiato.
E non espiato, ritorna non soltanto nei nostri sogni, nei nostri incubi, nelle nostre maledizioni, nelle nostre accorate e reiterate proteste ma anche nella realtà quotidiana, di cui ci danno notizia ormai quotidianamente, con monotona ripetizione, i giornali”.

Dal 'Cogito' 04-02-2001

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