Il folletto squagliato
Erano i giorni tiepidi del
marzo 1993; un sole quasi primaverile inebriava l'aria di gioia,
di voglia di fare. Io e la mia collega Maria eravamo alle prese
col palcoscenico, costruito arrabattando tavole di ponte e assi
dal fratello Mimmo che, depauperando il deposito della sua impresa
edile, con una santa pazienza, ci metteva a disposizione il suo
camion. Uno sciame di alunni che vociava, affaccendato a sistemare
le numerose e pesanti assi sul grosso camion tra sudore che colava
e gli abiti ormai sporchi e polverosi.
Non ricordo se era il secondo o il terzo anno di insegnamento al
famigerato III Circolo Didattico di Afragola. Quell'anno però
era speciale. Avevamo deciso di mettere su un recital che impegnava
quasi 400 alunni, di ogni classe della grande e sovradimensionata
scuola.
Quel giorno faceva più caldo del solito e mentre Maria, insieme
a Clarice e a Pina provavano le danze dei fiorellini e delle fatine,
cercando di dare un senso di continuità logica al copione,
noi, cioè io e una decina di alunni, neri di fuliggine eravamo
ormai sfiniti dalla fatica di quel giorno. Erano ormai sette ore
che inchiodavamo e trasportavamo assi per costruire quello che Mauro
chiamava il 'piùsuperpalcoscenico' del mondo. Senza mangiare,
con i genitori che ormai erano costretti a portarci qualche panino
per farci mettere qualcosa sotto i denti, eravamo sdraiati sull'erba,
le braccia e le gambe stanche, si rideva, si scherzava e si progettava
un bosco da costruire su quel palco. Il recital progettato si chiamava
proprio così:"Il bosco incantato", luogo nel quale
il protagonista, facendo esperienze di gnomi, di folletti, di fate
e di alberi e fiori che si esprimevano col canto, con i dialoghi
e coi balli, avrebbe ripensato alla sua fuga da casa e riscoperto
il valore della storia che stava vivendo nella sua famiglia dalla
quale era fuggito.
Molte settimane impiegammo nella preparazione di quel progetto che
si dispiegava e si concretizzava sempre più giorno per giorno.
L'esperienza fatta in quel tempo resterà per sempre scolpita
nella mia mente. La frase di Mauro, che quando riuscimmo a piazzare
un pino sul palcoscenico utilizzando il supporto del canestro da
basket della palestra mi disse:"Professò, sei proprio
un inventatore!", o lo stupore dei bambini che inchiodando
notavano le scintille che faceva il martello nel battere sul chiodo,
occasione trasformata subito in percorso didattico e allora…
via con gli uomini primitivi, la scoperta del fuoco e… tutti
in cerchio attorno a me che ascoltavano a bocca aperta. E le preoccupazioni
di Maria, la mia collega che con gli occhi colmi di gioia sembrava
una bambina in mezzo alle bambine.
Esperienza didattica trasversale, multi inter e trans disciplinare,
si chiamerebbe oggi, che fa leva sulla intelligenza emotiva, direbbe
Golemann, che parte dai reali bisogni e tiene conto della motivazione
in relazione all'innesto di un percorso di insegnamento-apprendimento,
direbbe il pedagogista di turno.
Eppure quei giorni non sono più tornati.
Noi sapevamo con certezza che per parlare agli alunni, dovevamo
entrare in quel mondo, bello, magico, semplice e incantato, imparare
il loro linguaggio e parlare col cuore.
L'esperienza di quegli anni ha segnato in modo indelebile la mia
vita e ha determinato con forza la mia storia.
Nel frattempo, in modo lento ma inesorabile, la 'mia' scuola cambiava.
Diveniva giorno dopo giorno più 'professionale', 'aziendale',
dove la rilevazione dei bisogni formativi andava fatta 'scientificamente'
perché l'educazione rivendicava lo statuto epistemologico
di 'scienza esatta' dove le variabili dipendenti e interdipendenti
andavano isolate e lette. Poco spazio aveva la gioia, il cuore,
la voglia di fare, sviliti completamente nel sistema aziendale della
'efficienza' ed 'efficacia' dei percorsi didattici, nel monitoraggio
scientifico dei risultati e dei processi. E il mio cuore, giorno
per giorno, mese per mese, anno per anno, si disincantava sempre
più e usciva un po' alla volta da quel bosco incantato che
in quei giorni dava senso e significato al mio lavoro.
E' difficile in poche righe spiegare come, perché e identificarne
le responsabilità, ma negli anni del bosco incantato il governo
preparava un Decreto Legislativo (il 29 del '93) che dava inizio
ad una serie di riforme, che con la legge sull'autonomia scolastica
del '97 e tante altri atti legislativi successivi ha provocato uno
stato di malessere nella scuola statale, così diffuso e radicato
che oggi è possibile, entrando in una scuola, toccare con
mano. Risparmi, tagli, aziendalizzazione forzata della scuola e
irretimento burocratico dell'insegnamento. Era il 1998 quando ho
ricoperto la carica di 'Funzione Obiettivo' e, una mattina mi son
svegliato e mi son reso conto di aver prodotto in un anno più
atti e documenti di quanto ho poi di fatto realizzato. Ero diventato
un burocrate distante da quel mondo del quale con fatica ero riuscito
a far parte.
Il panorama legislativo degli ultimi anni ha di fatto trasformato
il ruolo sociale della scuola pubblica. Sempre più debole,
meno incisiva, marginale e periferica rispetto allo strapotere dei
mass-media e alla cultura dei 'luoghi dell'apparenza', la qualità
della sua offerta formativa dipenderà sempre più dalle
erogazioni e dai finanziamenti 'non statali' e dalla ricchezza del
contesto sociale ed economico al cui interno la scuola stessa si
troverà ad operare. Le scuole povere sempre più povere
e quelle ricche sempre più ricche, in una reazione a catena
che porterà ad una selezione naturale dove chi è più
fortunato e chi prediligerà maggiormente l'aspetto organizzativo-manageriale,
in barba all'Insegnamento, sopravviverà.
E' il mecenatismo post-moderno, che legherà sempre più
il libero (sic!) e sacrosanto insegnamento alle logiche di potere
economico del contesto sociale.
Gki effetti sino scontati: confusione e rabbia, nella impossibilità
di non poter dominare né intellìgere un sistema più
caotico che complesso, dove il conflitto di competenze, le sovrapposizioni
dei vari poteri e il caos normativo la fanno da padroni.
E i miei alunni? Vivono ormai l'immane tragedia di una scuola che
privilegia i contenitori piuttosto che i contenuti; una scuola che
supina alla cultura dell'efficienza e dell'efficacia, del prodotto
e della produzione, sposta il suo asse, confonde gli obiettivi e
le finalità con gli strumenti e i mezzi; scuola dove i valori
strumentali assurgono a valori finali.
La mia crisi professionale, iniziata qualche anno fa, laddove mi
accorgevo che a scuola non ci stavo più con quel trasporto
emozionale di qualche anno addietro, mi fece pensare seriamente
alla proposta di Salvatore di entrare nella Segreteria Provinciale
dello SNALS, un sindacato autonomo che da anni, e poi l'ho toccato
con mano, si batteva per una scuola che non fosse quella che stiamo
vivendo negli ultimi tempi e di prendere parte ad una battaglia
istituzionale, utilizzando strumenti diversi e più efficaci
per continuare a combattere e a lottare strenuamente per una scuola
che si riprendesse quella centralità sociale usurpata da
altri dèi e padroni e tornasse a parlare al cuore dei suoi
alunni.
Ora lo vado a gridare ogni mattina nelle scuole, lo scrivo in modo
tecnico e scientifico su riviste e giornali a tiratura nazionale,
lo teorizzo con colleghi sindacalisti e formatori, lo rivendico
al governo con ‘commissioni trattanti’ per difendere
con i denti quello che - non molto - di quella scuola, di quell'anno
del 1993, è ancora rimasto in piedi.
L'altra notte, notte convulsa e febbrile, notte nella quale il mio
sindacato non ha voluto revocare lo sciopero di giovedì scorso
del personale della scuola decidendo per la protesta ad oltranza,
nonostante qualche elargizione economica del governo che col sudore
eravamo riusciti ad ottenere, tornavo in macchina, solo, esausto
dalla riunione tenuta con gli altri dirigenti e mi ritrovai da solo
in macchina a ricordare.
Maria, Pina, i bambini, quel capretto che fuggì nonostante
lo avessimo legato bene e lo sciame di bambini e bambine che lo
inseguiva uscendo pericolosamente sulla strada statale e noi a correre
dietro e le grida, i pianti, le gioie, le speranze, i racconti dei
ragazzi, gli occhi lucidi e di sera tutti alla pizzeria Gelsomino
a mangiare la pizza.
Quella mattina del 1993, mentre sull'erba del giardino della scuola
ci godevamo, per riposarci, il primo sole primaverile, Mauro gridò
d'improvviso: "Professò, un folletto, vi giuro, l'ho
visto dietro l'albero che ci spiava e poi è sparito…
così, ... si è squagliato…".
Dal 'Cogito' del 17-02-2002
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