La politica dei senza stato

E’ giusto, mi chiedevo nei giorni scorsi a seguito di quanto sta accadendo nel pubblico impiego e nel settore privato, è lecito, morale ed antropologicamente corretto utilizzare un mezzo obiettivamente ingiusto, per realizzare un fine soggettivamente considerato giusto?
Qualche giorno fa, in parlamento, il senatore Russo di A.N. interrogava il ministro dei rapporti col Parlamento, Giovanardi, che nell’ambito del question time rispondeva ad una interrogazione molto pesante dello stesso parlamentare: “E’ legittima – argomentava il parlamentale - l’azione della CGIL, la quale ha dato precise direttive alle segreterie provinciali di finanziare e sostenere l’azione di protesta del Movimento Universitario con il solo scopo di arricchire di un ulteriore elemento la sua strategia di destabilizzazione?
La questione si pone in modo più drammatico se si considera – continuava il parlamentare – che i sindacati, attraverso i patronati, vengono finanziati dallo Stato con centinaia di miliardi all’anno, oltre a ricavare soldi dalle trattenute sugli stipendi dei lavoratori e che sono deontologicamente vincolati a spendere gli stessi soldi unicamente in relazione alle azioni di lotta sindacale in difesa degli iscritti”.
E’ legittimo allora che un sindacato sia legato politicamente ad una forza politica e sia espressione di essa? O che, snaturando le sue finalità e i suoi obiettivi specifici, si metta a fare politica in senso stretto, utilizzando il suo forte peso sociale per coinvolgere i lavoratori iscritti in una campagna senza quartiere contro le forze governative, identificando come fine ultimo della lotta sindacale il tracollo elettorale del governo stesso?
Un sindacato legato politicamente non rischierebbe in questi termini di impiegare la sua forza unicamente per delegittimare e destabilizzare l’eventuale governo “avversario”? E nello stesso tempo non rischierebbe di essere supino ad un eventuale governo del suo stesso colore politico?
Temo che queste domande, contengano in sé già una risposta.
E’ quanto è drammaticamente accaduto negli ultimi anni e continua ad accadere.
Un sindacato, che nel suo DNA ha l’obiettivo di tutelare il lavoratore, ne sta decretando, paradossalmente, la morte e la violazione della dignità professionale.
Boicottare la contrattazione collettiva economica e giuridico-normativa o non fare pressione come si conviene perché i contratti collettivi si facciano, e al più presto, peraltro, significa, per un sindacato schierato politicamente contro le forze di maggioranza, ottenere il risultato concreto di attribuire all’Esecutivo le responsabilità della vacanza contrattuale e degli aumenti stipendiali mai ottenuti.
Come potrebbe, infatti, un sindacato schierato politicamente “contro”, desiderare contratti collettivi nazionali buoni o favorevoli al lavoratore?
Se si riuscisse a siglare un buon contratto, insomma, a chi andrebbe il merito? Non si rischierebbe, in questo modo, di favorire indirettamente un governo politicamente avverso?
E quello che sta accadendo ad Afragola, Casalnuovo, Caivano, non è forse la trasposizione, a livello locale, del delitto che si sta consumando a livello nazionale?
Come può, un clima così politicamente avvelenato, arroccato su posizioni di astio, forse odio reciproco, giovare o contribuire alla costruzione del bene comune?
Sembra che nel passato mi sia già espresso in tal senso.
Non si può fare politica in un sistema bipolare dove tutte le forze sia degli uni che degli altri sono finalizzate alla distruzione dell’altro o alla destabilizzazione a qualsiasi costo dell’avversario.
Non è vera politica il livore esasperato nei confronti dell’ “altro” solo perché schierato sul fronte opposto.
E’ tutt’altro che fare politica la non obiettività dialogica o lo scontro ad ogni costo che hanno cercato e cercano sistematicamente i poli politici che governano il paese.
E’ una cosa diversa e estranea alla politica vera l’utilizzo strumentale di ogni cosa a disposizione, compresa la buona fede del lavoratore, a mo’ di elemento di una articolata strategia bellica per abbattere l’avversario.
La politicità, è l’insieme di relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri in quanto fa parte di un gruppo sociale. E’ una dimensione consostanziale all’uomo stesso, che tende ad entrare in rapporto con i suoi simili e a formare con essi delle associazioni stabili. Entrando a far parte di gruppi organizzati, egli diviene un essere politico in senso stretto, membro di una polis, di una città, di uno stato.
Socievolezza e politicità, allora, sono due aspetti correlativi di un’unica dimensione, di una dimensione fondamentale dell’uomo.
“L’uomo è per sua natura un animale politico – diceva Aristotile – e colui che per natura è senza stato è superiore o inferiore all’uomo, vale a dire o è un dio, o una bestia”.
La politica, così come interpretata dai ‘politici’ è la politica dei “senza-stato”, dell’irresponsabilità e del cattivo esempio, della irrazionalità e della abdicazione della ragione, è la politica della negazione di questa dimensione fondamentale dell’uomo, che fa dell’uomo un uomo. Negandola, si nega l’uomo.
“E’ giunto il momento, e il momento è questo, nel quale gli uomini liberi e forti scendano in campo”.
Era il proclama di guerra di don Luigi Sturzo in un momento storico particolare dove la politica era indispensabile che divenisse patrimonio e strumento di partecipazione democratica alla vita dello Stato.
Oggi, questa proposizione sturziana, a mio modesto avviso, è più che mai attuale. L’ho già detto. Essere liberi e forti significa essere pienamente uomini, significa fare della socievolezza, del dialogo e del confronto costruttivo il leit-motiv del proprio vivere politico, significa avere come fine il bene e come metodo del proprio agire l’umiltà, significa aborrire come strumento dell’agire politico il mettere i piedi in testa a tutto e a tutti solo perché pesantemente condizionati dalla follia iconoclasta di distruggere l’altro, utilizzando tutti i mezzi, anche moralmente illeciti, con l’unico obiettivo di distruggere, distruggere, distruggere.
Quello che è successo ad Afragola e in parlamento, caro on. Nespoli, non mi è piaciuto.
Mi è sembrato di rivedere nella sua iniziativa quello che fece D’Alema nell’ultima campagna elettorale: le telefonatine ai vari giornali europei per ‘spingere’ a titolare contro la coalizione di centro-destra e il conseguente effetto boomerang della debacle elettorale.
E’ chiaro. Non credo che lei avesse cercato sic et simpliciter l’abattimento incondizionato di questa amministrazione. Il suo grido d’allarme è oggettivo e il pericolo, credo, costante. Ma non credo sia questo il modo di risolvere il problema.
L’ombra lunga dell’illegalità si stende funesta su quasi tutte le esperienze amministrative del meridione e forse dello stivale.
Ma gridare per abbattere e distruggere non serve, nè, credo, sia un atteggiamento che possa preludere alla crescita e al raggiungimento del bene comune.
Le propongo una cosa, anche se ad una prima impressione può sembrare ingenua: offra la sua collaborazione costruttiva a questa Amministrazione, al di là della spartizione del potere amministrativo. Proponga un vertice, un coordinamento maggioranza-opposizione, che abbia come obiettivo prioritario la lettura dei problemi cittadini e l’impegno di proporre itinerari strategici di crescita civile.
Sarebbe un esperimento unico in Italia e qualificherebbe oltremodo Afragola.
Potrebbe rappresentare la svolta, il tentativo di ritorno alla politica, alla politica vera.
Sarebbe, nell’ambito cittadino, un modo diverso ma autentico di fare opposizione. E consideri che i cittadini queste cose le sanno leggere.
Oggi, più che mai, la priorità è una e la responsabilità altissima. In una società dove delle vitrù e dei valori c’è da vergognarsi, in una società dove lo scontro e non il dialogo pontifica, in una società orizzontale di ‘senza stato’ e di ‘senzaddio’, si impone un ripensamento e una riflessione titanica: ricostruire l’uomo.
Diamo l’esempio.
Partiamo da Afragola.


Dal 'Cogito' del 20-10-2002

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