Luciano Medusa, Regista teatrale

L'intervento del regista Luciano Medusa in realplayer

 

Gli attori non hanno altre parole se non quelle dell’autore e quindi devono soltanto interpretarle per trasferire agli altri intere emozioni. Io questi passi di Tommaso li ho pensati così:

Lo spettacolo dell’alba, eguagliò, quasi, quello della notte. Il freddo ormai era insopportabile e decisi di compiere il grande sforzo: mettermi in cammino.
Era qualche ora che camminavo, stanco e affamato, e a quel punto considerai seriamente l’eventualità che mi fossi perso, quando, da lontano, vidi qualcosa che si avvicinava lentamente.
Davanti a me c’erano due enormi querce e qualcosa mi spinse a sedermi alla loro ombra.
“Come si chiama questo luogo?”.
Ero angustiato dall’idea di non ricordare quei posti e di aver camminato nella direzione opposta.
“Perché non ho seguito la Strada e mi sono addentrato nelle campagne?”
E mentre rimuginavo, quelle figure diventavano un po’ più grandi e riconoscibili. Erano tre uomini che camminavano verso di me.
“Mamre!”.
Il sangue mi si gelò nelle vene.
La mia mente fu investita da una serie di immagini violente e convulse. Vidi milioni di stelle, sconfinate distese di sabbia, bagliori accecanti che, come grossi fuochi sacrificali, passavano a velocità vertiginose tra carcasse di animali squarciati. Rumore di carri fracassati da onde colossali. Milioni di morti, barbarie, efferatezze, la svastica del Terzo Reich, milioni di bambini con la stella di David e la scritta Jude piangere, piangere, piangere. Le immagini diventavano sempre più veloci, più convulse, più potenti. Ero nell’occhio di un ciclone e non riuscivo, nonostante continui e reiterati sforzi, a dominare la violenza di quel turbine che mi portava a subire, impotente, emozioni fortissime. Ero fradicio d’acqua, acqua in cui nuotare, come quella che usciva dal Tempio nella visione di Ezechiele e sentivo ardere la mia pelle, le mie viscere. Il cuore fondeva dentro il mio petto e nello stomaco un dolore lancinante diventava sempre più insopportabile. Ero legato, come in una camicia di forza, sopra un veloce carro che percorreva a velocità inaudita quelle campagne e i cieli che le sovrastavano. Alle mie spalle una grossa scia di fuoco che faceva del Mercabà una meteora, un jet supersonico.
Mi ritrovai in un letto dalle lenzuola morbide e profumate di Marsiglia.
Sembravano i dolci raggi di un debole sole mattutino, quelli che penetravano dagli interstizi di due grosse ante lignee che stavano a guardia di una grossa finestra che mi ricordava un grosso portale di una cattedrale romanica.

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